10 marzo 2016

SE LE PRIMARIE SONO IL MALATO, LA CURA E' IL PARTITO APERTO


Le primarie non sono la cura, sono il paziente ammalato. Per curarlo non serve ammazzarlo abolendole o introducendo regole che le uccidano per asfissia. Serve rendere aperto il Partito, perché la malattia è lì, non nelle primarie, ma in un Partito che le vive come corpo estraneo e che le strumentalizza occasionalmente. Si chiudano i Circoli, risparmiando tanti soldi e sanando debiti, e si utilizzino o si incentivi la nascita e la crescita di Biblioteche di quartiere, perché un Partito aperto è come un pesce nell’acqua della cittadinanza attiva, dell’associazionismo e della partecipazione, i luoghi veri dove oggi si è trasferita la politica, scollandosi gravemente dalla Rappresentanza (ed è questa la malattia!). Fuori dunque dal mito delle Sezioni con gli iscritti che sfogliano il quotidiano del proprio Partito Chiesa, tra una briscola e uno scopone, per radicarsi al contrario nella contemporaneità, con iscritti che vorrebbero poter sfogliare tutti i quotidiani; magari per rintracciare e leggere meglio un editoriale ascoltato la mattina a PrimaPagina; magari per discuterne insieme a tutti gli elettori e anche con chi non lo è, magari conquistandone di nuovi per le prossime Primarie. O magari per organizzare un gruppo di lettura su un libro di particolare interesse politico, con tutti. O organizzare un blog nella biblioteca trasformata in digital library, grazie anche alla scelta del Governo sulla banda larga. Tollerando realmente le altre opinioni e sapendosi confrontare anche con gli altri Partiti, invitati a fare altrettanto, senza paura. E’ un progetto sostenibile, perché le Biblioteche, spesso inutili, in specie al Sud dove più grave è la malattia, esistono già e c’è tanto volontariato disponibile, a cominciare da quello potenziale dei propri iscritti, essendo – ricordiamocelo - i Partiti delle associazioni – a cui andrebbero poste regole come accade per tutte le altre. Regole che non sono neutrali, perché chi le invoca spesso insegue vecchi Miti novecenteschi anziché produrne di nuovi. Un mito che sia un modello pragmatico, idoneo per parlare ai nostri contemporanei e alle future generazioni: essere Partito aperto per una Società aperta, trasformando le biblioteche in infrastrutture di cittadinanza diffusa e di partecipazione. Solo allora le regole per le Primarie saranno le benvenute,
perché serviranno a preservarne la loro natura, quella per cui furono felicemente introdotte, e mettere fine alla loro strumentalizzazione da parte di apparati partitocratici che ormai hanno preso possesso dei Partiti e ne hanno esaurito ogni capacità di produzione politica di senso. Dentro i luoghi della rappresentanza non c’è più politica ma solo lotte intestine di gruppi di potere. La politica c’è ma ne è ostaggio, abita paradossalmente nei piani alti, perché alla fine non tutto è uguale e si devono fare scelte. Nei piani bassi c’è solo mercimonio e sono gli iscritti in buona fede i primi a soffrirne, ma spesso a non capire chi è il loro vero nemico. Non chi vota spontaneamente alle primarie, senza avere una tessera in tasca, e che lo fa per mettere fine a tutto questo.

07 marzo 2016

LIBERTÀ IN ALIENAZIONE

Libertà è alienazione? Se il processo che porta l’uomo a diventare uomo è alienazione, come può essere compimento di questo processo liberarsi dall’alienazione, anziché rinnovarla in forme nuove?

D’accordo, non è lo spirito a negarsi bensì l’uomo ad alienarsi nelle sue figure. Alla base di ciò il separarsi dal suo essere, per “cosificare” la realtà in un esterno da se, lo strumento tra le mani, la mano come strumento, sempre una Cosa atta ad essere strumento di rinnovate “cosificazioni”. Il lavoro, dunque, nobilita l’uomo. Lo crea, facendolo sentire a sua volta creato, nella nota inversione di soggetto e predicato. Tra le sue “cosificazioni” troviamo infatti gli enti, creature spirituali, immateriali, in realtà all’origine dotate di un corpo: quello della parola portata, solo portata, dalla voce. Una voce che nasce come suono, vivo, nello spazio, una voce che è all’origine musica. All’inizio fu il verbo. Esso non conosce compossibili perché tutto gli è possibile essere. Un ente che diventa presto Essere.

L’uomo diventa uomo perché diviso dalla natura. L’uomo diventa uomo perché diviso dal suo essere specie. L’uomo diventa uomo perché diviso dalla sua organicità. L’uomo “cosifica” se nell’individuo. Contro la specie e con essa contro la morte. L’individuo “cosifica” se nell’anima prima, e nella coscienza dopo, quando ricondurrà tutto, anche l’individuo, alla natura, dovendosi impadronire finalmente di essa e trasformarla in macchina, motore, forse messo in moto dall’Essere ma a cui non tutto è possibile e di cui ora occorre conoscere i compossibili.

Alienato infine da se stesso: dinanzi allo specchio non c’è più nulla. Solo un altro “ente” mosso da leggi matematizzabili, inclusa la casualità. Questo individuo è così libero da non produrre più significato. Dentro di se non vi è più alcuna libertà.

Torniamo indietro. Alla base del baratto non vi è M – M, che non troverebbe senso senza il valore d’uso, ossia senza l’uomo. Prima del feticismo della merce, vi è stato il feticismo della “cosa” , del prodotto dell’uomo, quindi C – M –C, dove la cosa non ha valore di scambio ma solo d’uso. Da qui la impossibilità di operare uno scambio e la necessità del (D)enaro come (C)osa che rende possibile lo scambio e che quindi deve sostituire la (M)erce nel passaggio tra le (C)ose. Ed è grazie al Denaro, cosa prima di qualsiasi valore d’uso, che tutte le cose possono alienarsi e diventare Merci nella formula M – D – M.  Tutte formule che vanno lette in modo dialettico, dove al centro abbiamo sempre una negazione, una perdita, mentre alla fine vorremmo trovare sempre una cosa aumentata: C – M – C’ (ho una cosa che non mi serve e ne voglio una che invece mi serve e che per vale di più); M – D – M’ (ho una merce che invecchia e perde valore e ne voglio una nuova che in quanto nuova durerà comunque di più, anche se diminuita rispetto alla stessa se la vendessi nuova. Quello che compro è il tempo, il tempo della vita di cui con il denaro invece ci alieneremo); D – M – D’. Processo che si compie solo nell’ultimo passaggio, perché solo il Denaro tra tutte le Merci è quella priva di valore d’uso, non ha compossibili ma solo possibilità. Il Denaro è la forma concreta, cosata, dell’alienazione, della libertà. Libero di potersi trasformare in tutto, ed è questo che diventa il suo valore d’uso, mantenendosi esso stesso una Merce. Ed è questo potenziale valore d’uso del Denaro che lo rende alla sua origine, in M – D – M, una merce proibita, ossia non vendibile ma solo utilizzabile nello scambio. Solo nel capitalismo esso si realizza, ed ancora una volta è il valore d’uso a fare la differenza, perché il Capitale è il valore d’uso del Denaro, quello che desideriamo aumentare. Cosa c’è oltre? Occorre liberarsi dall’alienazione o la libertà è l’alienazione?


In questo processo c’è un Soggetto dimenticato, di cui l’alienazione è il Predicato. All’origine c’è l’uomo, come determinato dal processo stesso. All’origine del processo, fuori dalla Storia, c’è dunque una Specie. Alla fine non c’è alcuna libertà. C’è di nuovo la Specie. L’individuo, un tempo libero, attraverso la dialettica dell’alienazione si è infine cosificato nella Specie. Gli individui dovranno limitarsi a parteciparvi. Cadrebbe così la necessità del Denaro e della Merce. Non vi sarebbe da desiderare infatti nulla di più. Il Comunismo come distopia. Non l’inizio della Storia, come pensava Marx utopico, bensì la sua fine. Un uomo tornato a pieno titolo nella macchina della Natura e da lei governato.

14 agosto 2013

Senza (t)Errore

Un libro facile da leggere. D'un fiato. Ottimo per non pensare nulla di nuovo sotto l'ombrellone e lasciare passare le ore più calde rinfrescandoci la mente con quanto già sapevamo. O credevamo di sapere. Per l'appunto.
Che le Brigate Rosse erano composte da persone in buona fede, figlie di intere stagioni di lotta "anticapitalista", pienamente inserite in un vasto movimento sociale.
Che le Brigate Rosse avevano una visione rozza dello scontro "di classe" con un nemico leviatano del tutto privo di contraddizioni interne.
Che le Brigate Rosse erano convinte di suscitare una sollevazione di massa e una frattura definitiva tra base e direzione del PCI. Uccidendo Moro pensavano di cambiare la storia senza capire che la cambiavano in peggio, mettendo fine al movimento stesso.
Che Aldo Moro fosse l'uomo sbagliato da colpire, l'uomo onesto della DC, isolato nella DC e privo di reali amicizie, espressione di una DC popolare e di massa (di cui le BR ignoravano l'esistenza).
Che Aldo Moro fosse un buon padre e marito di famiglia, un sincero cattolico.
Che Aldo Moro fu sacrificato alla ragion di Stato e le BR non furono capaci di usare politicamente il sequestro  a causa della loro rozzezza, con la sola eccezione di alcuni tra loro che trattarono con i socialisti per mezzo della Autonomia Operaia.
Che la stampa italiana non è indipendente dalla politica e si prestò a fare da grancassa per le versioni governative sul crollo psicologico di Moro, senza gran distinzione tra stampa di destra e di sinistra visto il governo di solidarietà nazionale tra DC e PCI.

Sfido ora a trovare qualcosa tra queste tesi che non suoni come luogo comune. Da cosa nasca quindi la necessità di aggiungere mistero a misteri non si capisce. Ammesso che la vicenda Moro abbia dei misteri il gusto in Italia per l'ambiguità delle verità insondabili è una delle malattie della nostra democrazia. In Italia vi sono segreti non misteri. E vi sono colpevoli impuniti, punto. Non trame imperscrutabili. Se vi era un vero Diario di Prospero Gallinari nessuno giustificherebbe il tenerlo segreto, tanto più se non contiene nulla di non già detto e nulla di sconvolgente o sconveniente per alcuno. Ancor peggio il "volergli dare veste letteraria" come dichiara l'anonimo autore. Se qualcosa di letterariamente interessante poteva esserci questa era nei "svarioni grammaticali ed errori di ortografia" (tutto qui? Ma la "veste" allora sarebbe intatta, quelli semmai sono refusi, inezie rispetto alla veste). Senza contare che Prospero Gallinari aveva già dato alle stampe una sua autobiografia con sole 15 pagine dedicate al sequestro Moro e quindi sapeva dar di conto di un lavoro editoriale.
Uscire con un misterioso "apocrifo" a pochi mesi dalla sua morte non mi sembra un'operazione di cui farsi buon vanto, tanto più se si pensa al rumore che hanno fatto i suoi funerali per la partecipazione di tanti e non solo di ex brigatisti. Non sono in grado di giudicare l'adesione tra il personaggio Gallinari del falso apocrifo e la persona Gallinari per come si è egli stesso raccontato in questi anni. Quel poco che ho visto su You Tube non convince del tutto ma è anche evidente che chi ha scritto il diario apocrifo ha lavorato sul personaggio partendo dalla persona, in specie dalla figura del "non pentito" che si è sempre chiuso dietro una giustificazione tutta politica (e di una politica ridotta alla guerra) delle sue azioni. Il titolo invece sembra ribaltare quello che anni fa venne detto di lui, ossia che pianse alla morte di Moro, una trovata editoriale che sicuramente ha aiutato il libro nelle vendite ma che nulla aggiunge al già detto. Veniamo dunque a quello che invece il Diario apocrifo non dice.
Ci parla di origini contadine ma nulla ci dice delle radici delle BR, tanto più che Gallinari è di Reggio   Emilia, come l'editore e presumibilmente anche l'autore del libro. Chi conosce queste storie sa quanto queste radici portino più al PCI che non alla sinistra extraparlamentare, all'idea di una Resistenza tradita e alla sottile linea rossa di pratiche di preparazione ad una eventuale insurrezione armata. Di questo si trova traccia nelle stesse dichiarazioni di Gallinari, non nel diario.
Non ci dice perché avessero scelto Moro e non per esempio Andreotti. Ci nega la tesi, cara alla sinistra istituzionale del tempo, che volessero fermare il compromesso storico ma lo fa con argomenti non convincenti. Nessun tentativo di rapportarsi all'immagine di Moro che al momento del sequestro era dominante nell'immaginario di massa, in specie se guardiamo al vastissimo movimento e alla produzione culturale nel nostro paese quasi tutta in stretto legame con questo movimento (uno per tutti il Moro di Todo Modo di Gian Maria Volontè). Moro è stato "santificato" dopo e forse anche grazie a quella prigionia, alle sue lettere, alla pietas di cui le stesse BR sono state causa e testimoni ma il diario era scritto da una persona in debito con l'altro immaginario di Moro, l'autore doveva tradurlo in odio e disprezzo e non osa farlo, sembra già agito da qualcosa che gli è contemporaneo (il Moro imprigionato) ma proprio per questo futuro alla coscienza. E dove sono le prove schiaccianti delle sue colpe? Dove le prove per una condanna a morte? Non ci sono e basta. Si parte dall'assunto che non ci è dato conoscerli ma non si osa dire cosa era uscito da quegli interrogatori. Semmai i brigatisti prendono lezioni da lui, bravo professore universitario anche se difficile da capire. Nemmeno il disprezzo per quella difficoltà di linguaggio che ad un rivoluzionario poteva solo risultare omissione e complicità, linguaggio "del" potere e quindi prova o indizio di più grave colpevolezza. Il Moro del diario apocrifo è già il Caso Moro che lo stesso Gian Maria Volontè interpreterà anni dopo, di nuovo incarnando magistralmente la nuova immagine del politico democristiano, quella ormai consegnata alla Storia. E che il diario apocrifo conferma, sin dal titolo.
Riesumare il Conte di Montecristo per così poco è davvero grave. Non vi è traccia alcuna di Vendette qui, nemmeno della memoria. Solo il cattivo vizio italiano di intessere misteri anziché reclamare la fine dei segreti. Così è questo libro: senza errori, senza il coraggio di dire la cosa sbagliata al momento giusto. Inutile. Ci resta il "terrore", quello già dato e consegnato alla memoria ma di cui ancora oggi non siamo in grado di parlare se non a vuoto.

24 luglio 2012

A CHI TOCCA?

Hollande e Obama: la loro vittoria segna
il passaggio di mano alla sinistra?
Ero certo toccasse alla sinistra. Dopo decenni di predominio neoliberista solo contrappesati dal new labour sembrava che non potesse essere diversamente. Al contrario l'inquietudine che le risposte di sinistra non ci siano fanno crescere il mio timore che non vi sarà alternanza ma rottura. E se qualcuno si illude che questa rottura consentirà sperimentazioni sociali ancora più avanzate non solo si sbaglia di grosso ma rischia di aprire le porte all'estrema destra. Ritorno al fascismo? Ve ne sono tutte le condizioni. Mi basta leggere una delle ultime interviste al teorico della decrescita, una delle ideologie della sinistra radicale più penetranti e diffuse. A chiare lettere la formula di Latouche è quella della estrema destra e non teme nemmeno di dirlo, sono i suoi estimatori che chiudono le orecchie a tempo per timore di capirlo: bancarotta, uscita dall'euro, piena occupazione con drastica riduzione sia dei consumi sia degli stipendi e soprattutto protezionismo in politica economica e dispotismo come forma di governo. Sì avete inteso bene: dispotismo, dittatura in nome del bene comune. Altrimenti detto fascismo. Da teorico della democrazia diretta Latouche non teme di dire che "l'estrema destra (ha successo) perché non tutto quel che dicono è stupido. C'è una parte insopportabile, ma se sono popolari - e lo saranno sempre di più - è perché hanno capito alcune cose, hanno ragione. E' questo che fa paura". E due sono le cose che l'estrema destra avrebbe capito: che "esiste un buon protezionismo ma non un buon libero scambio" e che "la democrazia sia un'utopia" mentre "la cosa importante è che il potere porti avanti una politica che corrisponde al bene comune, alla volontà popolare, anche se si tratta di una dittatura"Personalmente non sono affatto meravigliato della parabola del pensiero di Latouche. Sono convinto dal suo sorgere che il movimento antagonista nato dalle ceneri delle due grandi stagioni di contestazione che sono il '68 (a predominio marxista) e il post '77 (a predominio ecologista) era oggettivamente una risposta "reazionaria", nel senso romantico e originario del termine di reazione alla modernità in nome non tanto del passato quanto di un futuro utopizzato sotto il segno passatista del "ritorno". Esattamente come ogni ideologia fascista. Manca per ora a questa estrema destra il sostegno di grandi gruppi industriali e nel frattempo la sinistra radicale continuerà a coniugare in termini di sinistra decrescita e dittatura, ma solo per farne ideologia ossia brodo di coltura per ben altri possibili esiti politici, a destra ma illiberali.
Serge Latouche
E intanto la sinistra? Quella vera, quella di governo. Non quella rivoluzionaria ma senza rivoluzione da fare. Ho l'impressione che anche lei mancherà all'appuntamento. Non tanto perché non entrerà nella cabina di comando quanto perché non saprà cosa farci. A questo non contribuisce il racconto prevalente che di questa crisi essa si da. Vissuta come riscatto da anni di dominio neoliberista la sinistra (parlo di quella istituzionale e riformista) interpreta la storia come un movimento progressivo a senso unico dove l'alternanza al governo delle destre corrisponde a passi indietro e deviazioni. Non è corretto! Ed è pericoloso.
I sistemi democratico liberali occidentali si reggono su alternanze di governo in base alla capacità d interpretare le necessità del proprio tempo che destra e sinistra propongono. L'avvento del neoliberismo era una risposta da destra all'impasse che alla fine degli anni settanta le politiche generali d'incremento alla spesa pubblica avevano prodotto. Il new labour non era una risposta subalterna ma semmai tardiva e poco convinta e convincente. La sinistra non ne ha mai prodotto una migliore ma quella che è rimasta ferma non ha oggi ragioni da rivendicare. Invece lo fa e non c'è da stupirsi. Comunque lo avrebbe fatto ed io mi sono illuso durante quest'anno che sarebbe stata la sua ora, parimenti all'avvento del neoliberismo, altrettanto deciso ed estremista nella risposta avversa agli anni del welfare, la sinistra decisa nel riavviare un "new new deal". Compito da darsi quello di aiutare a trovare strade "misurate" e consapevoli che la sfida è nella qualità dei servizi e nel tener conto che il rigore essendo una necessità deve coniugarsi con merito ed efficienza, valori che hanno sempre fatto fatica a diventare patrimonio della sinistra. Temo che la sfida non sia solo questa. Temo che l'ora non stia scoccando per la sinistra e che la storia ci stia riservando altre sorprese.
E spero di sbagliarmi ma la sinistra deve aprire una fase costituente e dimettere tutti gli abiti consunti che ha ereditato dai secoli passati. Purtroppo non vedo uomini e menti che la indirizzino in tale direzione. E non parlo certo solo dell'Italia da cui poco mi aspettavo...
Spero di essere presto smentito.

30 agosto 2011

TI HO ASPETTATO A LUNGO



Ho cercato
una donna
che mi salvasse la vita
Non per un'elemosina e nemmeno per un prestito

Una donna che
sapesse cosa vuol dire
perdersi una o due volte.
Infatti, chi lo sa
cosa può accadere domani?

Ti ho aspettato
e tu sei venuta
Ora per così tanto tempo
Così tanto tempo, ora

30 dicembre 2010

BUON 2011


RICEVO DALL'AMICO DORON KLINGHOFER E VOLENTIERI CONDIVIDO I SUOI AUGURI PER IL 2011

02 dicembre 2010

"Io non credo che morirò. Certo è una possibilità, ma..."



"Io non credo che morirò. Certo è una possibilità, ma potrebbe non accadere." Così si chiude il testamento di Mario Monicelli. Una frase grandiosa che non riesco nemmeno a commentare, per timore di immiserirla. Nel video che ho scelto, Mario Monicelli ci dice invece, più semplicemente, che la speranza è una trappola, una "invenzione dei padroni" e che quindi il cinema non deve dare speranza ma toglierla. Nel dirlo tra l'altro cita anche l'aldilà e l'invito alla preghiera come esito negativo della speranza in esso.

Ogni maestro rischia di non essere compreso ma resta un dovere tentare di interpretarlo e correre così il rischio di tradirlo. Solo che Monicelli non voleva nemmeno essere chiamato "maestro" e forse non voleva che nessuno parlasse per lui ed ora che è morto forse vorrebbe che la sua voce fosse spenta. O forse tutto questo gli era indifferente, essendosi egli annullato nella morte. Eppure dice Monicelli nello stesso testamento, anzi lo grida: "Voglio morire sulla scena". E ci è riuscito.

Con il suicidio infatti lui ha avuto la sua scena finale. Ha contrapposto la dignità alla vile speranza. Io resto ammutolito dalla radicalità del suo gesto che coincidenza ha voluto arrivasse mentre un pezzo d'Italia chiedeva la parola "per la vita". Non ci sono partiti pro vita o pro morte, per me. Ci sono solo scelte e la sospensione del giudizio nel rispettarle. A me fa male pensare quello che può aver passato Mario Monicelli negli ultimi minuti che lo hanno separato dalla decisione di gettarsi dal quinto piano. Mi fa ancor più male pensare a cosa può aver provato fisicamente durante e dopo la caduta. Avrei di certo preferito una gentile siringa assassina. Ma forse lui, che non amava chiedere, preferiva invece così, la scelta dolorosa di un'ultima "rivoluzione" per girare il mondo dall'altra parte, quella dove tutto si annulla. E come dice nel video non vi è rivoluzione senza sofferenza e dolore. Lunedì notte Paolo Villaggio diceva che Monicelli non aveva fede e che, avvicinandosi alla morte, non poteva non aver raggiunto l'assoluta certezza che non lo attendesse nulla oltre, nient'altro che il nulla. Poi c'è quella frase detta da lui dopo il suicidio del padre, a 30 anni: "Lo capisco e lo accetto. Meglio levarsi la vita se sai che non puoi più viverla con pienezza e dignità" e lui ha fatto la stessa cosa, 61 anni dopo.

Queste le considerazioni che ho fatto di getto lunedì notte e le polemiche di ieri vogliono dire che ci avevo visto giusto. E dirò di più: io non "partecipo" per la dolce morte, né mi piace il suicidio, dico solo che Monicelli non credo volesse il silenzio e il rispetto, cose che si riservano a chi si suicida per debolezza. Anche se mi hanno procurato un intimo fastidio, ho condiviso gli interventi in Aula di Montecitorio che hanno sottolineato il significato politico di questo gesto per l'eutanasia. Alzare la voce nel giorno del lutto è stato un gesto di rispetto per la sua morte e non il contrario, utilizzarla per risollevare il problema, perché questo avrebbe preferito lui: morire sulla scena, appunto. Mi resta invece il dubbio se Monicelli avesse davvero preferito una siringa. Troppa pietà e troppa commiserazione per i suoi gusti. Non credete? Anche con l'eutanasia legalizzata lui secondo me si sarebbe suicidato per farla finita in un colpo e via.

Io non sono né pro vita né pro morte, sono solo per la libertà di scelta che è pari alla libertà di culto. Chi crede che la vita non gli appartiene non potrà accettare il suicidio, chi si lo userà per affermare la sua libertà. In un paese bigotto come l'Italia la morte di Monicelli farà storia. I veri credenti dovrebbero dirgli grazie perché la fede non la si impone per legge e senza libertà è priva di significato e valore.