27 novembre 2008

CARO BENNY...



Esattamente un anno fa scrivevo questa lettera segreta (a Benedetto Petrone ucciso il 28 novembre 1977). Quest'oggi un amico ritrovato mi ha mostrato la mia immagine del 28 novembre 1978 (la prima manifestazione per ricordare la sua morte). Ho deciso di pubblicare entrambe. Segue la lettera del 28 novembre 2007.

Caro Benny,
tra poche ore si compie il trentesimo anniversario della tua morte. Non posso immaginare cosa tu possa aver provato. Francamente mi auguro che tu non sia stato assalito dalla paura. Voglio sperare invece che, meno innocentemente, tu abbia reagito se non provocato quel assalto e che qualcuno dei tuoi assalitori porti oggi magari i segni di un tuo colpo di catena o di altro. Non lo dico per gusto dell’osceno o della provocazione ma solo perché se così è stato non avrai avuto il tempo di essere morso dalla paura. Quel colpo alla tua pancia ti sarà giunto inaspettato e il dolore ti avrà assalito all’improvviso, senza annunciarsi e oscenamente denudarti lo spirito. Spero così!
E con questo mio dire spero anche di aver detto tutto il mio disagio rispetto alle rievocazioni di cui leggo da giorni e che mi accingo con timore a vivere anche nelle prossime ore.
C’è un sentimento che davvero non mi appartiene in questo rito collettivo. E pensare che per anni, esattamente per cinque anni, ogni 28 novembre io e gli amici di cui spero ti ricorderai, abbiamo riempito la città di manifesti serigrafati, riempiendoci di sudore, colla, polvere e vernici. Per cosa poi? Forse semplicemente per un gesto d’amore.
Amore e rabbia. Violenza e passione. Sconfitta, rancore e ripensamenti. Il desiderio rimasto inesaurito di un reinvestimento di idee e passioni che non è mai giunto. Eppure dopo quei cinque anni successivi alla tua morte, per me i più intensi di militanza politica, venne una grande gioia di smantellare tutto. Da allora ho pensato semplicemente di averti tradito. Per me che riempivo la città della stupida scritta “Benny ti amo” questo sentimento non era da poco. Tu eri morto per ideali in cui non volevo credere più e che mi avevano tradito e meritavano solo disprezzo e rabbia. Come poterti rendere conto di questo e farti partecipe? Impossibile, tu eri morto per loro. Terribile come la morte possa fissare il nostro destino a qualcosa di così caduco anche se dall’apparenza granitica, com’è stato il comunismo.
Ora scrivono che la tua morte non è venuta invano perché avrebbe fatto fiorire una stagione irripetibile di lotte e dato a questa città una nuova consapevolezza. Che sciocchezza! Grazie al tuo sacrificio ci saremmo liberati dal peso degli anni di piombo. Che orrore! Prima della tua morte, al contrario, la rivoluzione era per noi solo una gioia. Una terribile catarsi che ci avrebbe donato una nuova vita. Dopo la tua morte ci siamo resi conto che eravamo entrati nel tunnel degli anni di piombo e che tutta la violenza di cui eravamo stati capaci e, ancor più, quella di cui avremmo voluto essere capaci, tutta questa violenza ci ricadeva addosso come inutile e vacua. Io non ho resistito e da allora ho smesso di giocare. Niente gioia. Alcuni reagirono con il riflusso. Altri con la disperazione. Altri sicuramente ma silenziosamente con sani ripensamenti. Io volli procedere come mio carattere ad una verifica estrema. Il riflusso per me fu rimandato di cinque anni ed ebbe almeno il suono straziante ma bello del postpunk. Solo oggi capisco quanto la tua morte abbia contribuito a farmi scegliere la ferrea disciplina della militanza. Dedicai ogni mia energia ad una rivoluzione che non si sapeva più quando sarebbe venuta ma che il nostro marxismo c’imponeva di preparare con il massimo dell’intelligenza possibile, perché non fosse nuovamente fallimentare. Un appuntamento con la Storia che non ci bastava più. Al fallimento, se non s’arrivava preparati e attrezzati per vincere non solo la rivoluzione ma anche e soprattutto oltre la rivoluzione, sarebbe seguita semplicemente la barbarie. Non ci si poteva più permettere di confluire semplicemente in un movimento. Quel movimento sarebbe stato, come tutti i precedenti, un movimento a vuoto se ognuno di noi non si faceva responsabile e sapiente anche di questo, smettendola di attribuire al nemico i propri fallimenti. Con la tua morte, Benny, il gioco finì. Almeno per me. Io nel 1977 ero diventato appena maggiorenne e nei cinque anni che seguirono feci solo finta di studiare. La mia università fu la politica. Ed avendo scelto la rivoluzione più radicale non mi rimase spazio per prepararmi ad un futuro da dottore o professionista. Mi ritrovai nel 1982 a mani vuote. Fu allora che decisi di mollare tutto e tornare a me stesso, ormai convinto che il comunismo non era una causa tradita ma una tragedia ingannatrice e ormai senza futuro. Nel frattempo solo la fortuna volle che scegliessi per la “verifica estrema” un’organizzazione che mi protesse dalla scelta armata. Io non sono mai stato equidistante tra terrorismo e stato. Il terrorismo era una delle pratiche da tempo scelte dai rivoluzionari e piuttosto era la mia organizzazione ad essere minoritaria e andare per il sottile. Ho divorato libri sul terrorismo cercando qualsiasi argomento mi consentisse di praticarne almeno un po’ di quel terrorismo negatoci ma d’altro canto così evidentemente fallimentare. Strano sentimento: da una parte il desiderio di sentirsi chiamato finalmente alle armi e dall’altro quello di sentirsi dire che non funzionava solo perché non era giunta ancora l’ora. Ci accontentammo di quello che fu da noi definito terrorismo diffuso, pratica sbagliata – ci dicevano - ma che potevamo tollerare purché spontanea e non diretta da apparati politici altrimenti colpevoli (ma non di fronte allo Stato bensì solo a futuri tribunali del popolo…). E con questo margine di tolleranza potevamo e dovevamo dunque calarci nelle situazioni di spontanea violenza e magari esercitarci nella fabbricazione e nel lancio di molotov o nel tiro a segno.
Ora io ti ho conosciuto poco ma non posso tradire e nascondere una verità certa di cui sono testimone. Noi, tutti noi, noi dell’estrema sinistra e quelli che come te che militavano solo per un senso di appartenenza di classe nel Partito Comunista Italiano e nella sua Federazione giovanile, avevamo come unico scenario desiderato la Rivoluzione. Ricordo come oggi i voli pindarici dei militanti più grandi di te che si difendevano con orgoglio dall’accusa allora infamante di essere Riformisti. Questa parola non piace ancora a molti che fanno finta di accoglierla. E sono gli stessi che oggi dicono che la tua morte sarebbe servita a far vincere il diritto alla partecipazione e alla democrazia. So che queste parole ti sarebbero piaciute, perché altrimenti non saresti stato nella FCGI, ma so anche che se ci siamo conosciuti e sfiorati nelle nostre vite è perché tu avevi scelto di essere partecipe di un processo che si voleva e si pensava insurrezionale. A noi non ci bastava un mondo migliore. Volevamo un altro mondo. Oggi di tutto questo non ci rimane nulla e nemmeno coloro che parlano di un altro mondo possibile si avvicinano a tale palengenesi, perché noi non ci accontentavamo del possibile, se non come categoria di strategia politica. Perché allora non dirci la verità? Con la tua morte iniziò la fine di questa illusione. Nessuna rivoluzione sarebbe iniziata e quella di cui assaporammo un possibile e desiderato preludio aveva il sapore amaro della morte: vacua e inutile…. Chi di noi può dimenticare quella notte interminabile in Piazza Prefettura? I fiori, i foglietti, il cerchio sul posto della tua morte che si allargava di minuto in minuto. A notte fonda arrivarono anche i miei famigliari, rassegnati all’idea di non potermi nemmeno parlare e non potermi di certo fermare. La Polizia iniziò a circoscriverci e noi come cani rabbiosi si voleva colpire i nemici, tutti. Anche di questa disperazione mi sono nutrito, assaporandola appieno. Quando sarebbe iniziata la violenta risposta? Tentativi di prendere possesso di Via Piccini partivano continuamente e il passamontagna aspettava solo di essere calato. Non si poteva dormire e si desiderava la catastrofe per il giorno dopo. Il vuoto allo stomaco fu succeduto dalla festa. La città il giorno dopo fu nostra e la prima cosa fu bruciare la Passaquindici, quella sezione di giovani missini contro i quali insieme avevamo fatto le “ronde proletarie”. E’ così che t’avevo conosciuto. In Via Mungivacca o giù di lì, nei pressi della Chiesa Russa, eravamo stati assaliti da alcuni colpi d’arma da fuoco, veri o presunti. Tanto bastava per correre in ritirata ma tu non seguisti il passo e io mi accorsi che eri claudicante. Una compagna di cui ero innamorato s’innamorò di te e io, come sempre e come giusto, amai il suo dolce amore per te. Anche in questo parliamo di un’altra Era! E’ qui che nasce il sentimento di quella mia scritta incomprensibile ai più: “Benny ti amo!”. Scrivevo dell’amore altrui perché ne ero partecipe e perché non volevo che rimanesse inespresso. Sapevo che per qualcuno la tua morte non era ripagata dal linguaggio della politica e a quel tempo sognavo una politica che sapesse parlare anche questi linguaggi, in nome di un futuro comunismo che l’alienazione della politica non doveva conoscerla. Stiamo parlando del 77 e degli indiani metropolitani, un breve periodo in cui rivoluzione comunista e cultura alternativa s’incontrarono e sposarono. Bellissime colonne sonore per i nostri sogni. Poi i sogni si fecero pratiche rigorose ma almeno le colonne sonore rimasero a farmi compagnia. La nostra palingenesi comunista non aveva il suono cupo delle marce trionfali ma quello psichedelico del libero amore e della percezione già proiettata in universi alieni. Tutto invano Benny. E’ triste dirselo ma sarebbe osceno nasconderlo a te. A te non serve mentire. Purtroppo serve ai vivi per non fare mai i conti con il passato e reinventarsi un presente consolatorio attraverso una proiezione deformante sulla storia. Sono passati trenta anni ma accade che la nostra generazione come Orfeo non sappia guardare indietro. Ha perso Euridice nel tentativo di strapparla alla morte, incapace invece di dar vita a Nuovi Amori. Ed è proprio questo sguardo nostalgicamente rivolto all’indietro ad impedircelo. Il non saper resistere alla tentazione di autocelebrarsi e abbandonarsi semplicemente al ricordo. Nessuno può dirmi se anche tu oggi non avresti fatto lo stesso. E’ sicuramente più probabile ma anche a te voglio allora confessare d’aver avuto sempre un senso di colpa per la tua morte. Essa fu preceduta, appena due giorni prima, dal primo raid (l’ultimo solo a causa della tua morte, altrimenti ne sarebbero seguiti altri) davvero deciso e violento nel quartiere Poggiofranco. Uno stupidissimo gesto di violenza che ebbe vittime lievi per quei tempi, essendo le ossa rotte cosa da poco nello scenario del 77, ma che poteva finire con il morto, per esempio a causa dell’incendio della piccola discoteca nell’interrato o, più difficilmente, di qualche pestaggio di troppo. Quella violenza ci apparteneva e non era solo dominio della parte avversa e che noi la si chiamasse autodifesa o altri presidio democratico non cambiava la sua natura oggettiva. Questo è ancora un tabù ma per lungo tempo io ho pensato che quella maledetta notte del 28 novembre avessero voluto rispondere al nostro gesto. Noi attaccammo Poggiofranco e loro Bari Vecchia. Mi piacerebbe sapere che non è stato così e credere ai complotti o comunque essere smentito nelle circostanze anche casuali. Non avverrà mai e quindi mi sento di chiederti anche scusa e perdono. Ma tu quella notte a Poggiofranco forse eri con noi e non avresti esitato comunque ad esserci. Anche per questo ti ho amato. Ricordo che al ritorno da Poggiofranco ho parlato a lungo con qualcuno di Bari Vecchia, contento per quello scontro finalmente di classe anche nella sua fisica zonizzazione. Anche da qui l’idea che tu potevi essere dei nostri. Da qui dunque sarebbe giusto ripartire: le due città per l’appunto. Liberandosi però di tutto il resto.
Nei giorni successivi ricordo che dai microfoni di Radio Radicale si levavano parole per me oscene che invitavano i compagni a dimettere la loro violenza. I microfoni erano aperti e i più rispondevano che la violenza era l’unica risposta legittima e necessaria, contro i fascisti per tutti e contro lo Stato per molti. La rottura con questo scenario lo compì il PCI proprio quel anno, chiamando fascista il movimento del 77. Ma a parte la Direzione del Partito il processo di rottura tra movimento e PCI non si compì mai del tutto e non fu soprattutto lineare e repentino, né tantomeno esteso a tutte le sue strutture periferiche e territoriali. Non sarebbe stato possibile, sociologicamente parlando.
Se oggi dovessi indagare sulla tua morte punterei il mio sguardo proprio su coloro che ti hanno ucciso. Cosa pensavano realmente? La loro storia è molto più oscura della nostra e ancor meno hanno avuto il coraggio di parlare, mossi per lo più dal comprensibile desiderio di vedersi anche loro riconosciuto lo status di vittime e non solo di carnefici. Viviamo dunque in uno Stato dove nessuno vuol fare i conti e tutti sono partecipi delle reciproche omissioni. Lo Stato con le sue Stragi, i fascisti che non so più capire cosa fossero se non dei ribelli o dei figli di papà, e infine noi.

Ciao Benny, so di aver parlato solo a me stesso ma è questa una strana attitudine umana, in specie a Novembre. Parliamo con i morti perché non possono più ascoltarci. Ai vivi, d’altro canto, non so quanta voglia ho di raccontare queste cose. Si tratta solo della mia umile e inutile storia. Per altri si è trattato di un percorso diverso. Molti non si sono mai chiesti quale comunismo volessero. Erano quel tipo di compagni ingenui che continuano ad affollare volentieri le piazze con il Che, i diritti dei palestinesi e magari un po’ di commercio equosolidale. Forse anche tu saresti stato con loro. Altri hanno finito i loro studi e oggi pensano, grazie al loro successo professionale e politico, che tutto sia interpretabile come una vittoria della democrazia. Come se quella contro la quale lottavamo non fosse proprio la “democrazia”! No, caro Benny. Non saresti morto di certo se si trattava di consentire anche ai missini di entrare nel gioco dell’alternanza e ai tuoi dirigenti di allora di governare il capitalismo, diciamo da sinistra. Se ci fossimo dati questo scenario per il nostro futuro saremmo arrivati a pacifici accordi anche con coloro che ti hanno ucciso. E noi non avremmo mai tentato di massacrarli perché “servi armati dei padroni”. Alla luce di questo scenario la tua morte appare solo più vana che mai. Perché nascondersi questa verità? Solo per non sentirsi in colpa con te.

… Mi rimane solo un senso di vacuità. Tu sei morto e mi sembra vero quello che qualcuno osa dire: tutti parlano del significato della tua morte ma di te nessuno. Scusami Benny se anche io, oggi, ho partecipato a quest’inutile gioco. Preferisco tornare al silenzio e ad un giusto senso di colpa nei tuoi confronti.

Bari, 28 novembre 2007

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