26 ottobre 2008

UNA STRADA VERDE PER IL (NON)CINEMA

Ieri Bari ha partecipato ad un evento epocale, ancora in progress: il progetto di film enciclopedico "Le 92 valigie di Tulse Luper" mostrato in forma di vjing ed introdotto da due giorni di seminario. Registro qui alcune mie riflessioni sull'incontro con Greenaway.

Il cinema del futuro non è quello sognato dal cinema. O almeno: quello che Peter Greenaway ci mostra come il cinema del futuro non è quello che il cinema ha sognato per se e in cui ha sognato di perdersi e reinventarsi. Ieri Peter Greenaway lo ha anche citato ma, a mio parere, in modo improprio; Godard: "il cinema è la verità a 24 fotogrammi al secondo". Quello che invece Greenaway persegue non è la verità ma la rappresentazione. Come indicato anche da Rohmer, il cinema è tale sino a quando non si trasforma in arte. Parafrasandolo, quella di Peter Greenaway è arte e quindi non è cinema. D'altro canto lui ha probabilmente ragione di dire che è questo il cinema del futuro e, paradossalmente, ha anche ragione a dire che il cinema non è mai nato. Ancora Godard che cita i Lumiere: il cinema è una invenzione senza futuro! Ma cosa è allora il cinema o forse cosa il cinema ha sognato di essere? Esattamente quello che Peter Greenaway ha indicato come sua insufficienza ossia il disposito occulto della caverna platonica, il mondo delle idee materializzato. Il dispositivo illusorio del cinema, il suo nascondere se stesso e colpire alle spalle e al buio lo spettatore: questo è il cinema! Molti passatisti ieri hanno contestato Greenaway in nome dunque della Sala e della sua socializzazione. Avevano torto. Per due ragioni. La prima è che il dispositivo cinematografico, ha ragione Greenaway a dire che, vive nel rapporto 1:1 che instaura con lo spettatore al buio, avvolto nel grande schermo. Insomma: il grande schermo non è grande per farci stare tutti insieme bensì per avvolgere lo spettatore e abbracciarlo. Come già scritto da Rohmer, il cinema è una forma illusioria di realtà vituale e, aggiungo io, non a caso noi ne raccontiamo (falsamente) la nascita con la storia degli spettatori impauriti dal treno che li investiva e usciva dallo schermo. Quella storia è una favoletta inventata da un giornalista per rendere più saporito il suo pezzo di cronaca. In realtà quel giornalista raccontava la verità molto più di quanto ne fosse consapevole. Quel resoconto falsato racconta ancora oggi quello che tutti in quel momento hanno sperato di poter vivere (e non a caso scrivo vivere e non vedere)! Nessuno ha realmente pensato che quel treno fosse vero ma tutti hanno giocato a crederci perché quella era l'aspettativa, il desiderio. Sull'ingenuità che un apparato visivo possa trasportare la realtà da luogo a luogo possiamo oggi discutere ma tale ingenuità ha fondamenti neurofisiologici. Non mi dilungherò ora su questo. Di certo il cinema ha inseguito tenacemente questo progetto e per questo Rohmer giustamente dice negli anni '60 che il futuro del cinema, quello che ogni vero cineasta avrebbe dovuto augurarsi, era nell'ologramma. Anche lui, contro una generazione di esteti passatisti, combatteva coraggiosamente l'opinione corrente per il suo tempo che l'olografia e la tecnica del cinema come arte dell'illusione fossero il nemico del cinema inteso come forma d'arte. L'argomento principe era che l'ologramma avrebbe distrutto il linguaggio cinematografico, il punto di vista privilegiato e il taglio dell'inquadratura, facendo tornare il cinema ad una forma di teatro surrogato. Allo stesso modo, in passato, negli anni '30, gli autori si erano opposti al sonoro. Entrambe battaglie sbagliate! Il cinema vive nella forma illusoria di riproduzione della realtà e nell'esperienza illusoria dell'altro. Non è una forma figurativa di rappresentazione ma verità ed esperienza, finestra sul mondo e al contempo il mondo stesso reinventato e riprodutto come esperienza. Quindi il cinema, ce lo insegna Chion, non è mai stato realmente "muto" ed è diventato sonoro appena ha potuto, così come ieri sarebbe diventato senza reticenza ologramma se fosse stato reso possibile ed oggi virtuale, se la tecnologia seguisse un decorso logico. Cosa che non é. Tornando ai passatisti di oggi, che pensano alla Sala come luogo di resistenza del vero cinema, ho detto perché il grande schermo non serve a creare una comunità bensì ad avvolgerci. Non vi è quindi una funzione di socializzazione ma un dispositivo che vuole portarci altrove. Questo altrove è il cinema, l'esperienza dell'altro. La storia che il cinema fosse già nato prima dei Lumiere con Edison è una grande sciocchezza. Prima dei Lumiere erano decenni che si inventavano apparati per la riproduzione del movimento e dell'immagine fotografica in movimento. Questi macchinari avrebbero potuto aver successo ma erano cosa diversa dal cinema perché non prevedevano la Sala bensì una visione meramente oculare. La Sala invece ha consentito che il Treno uscisse dallo schermo ed investisse il pubblico in platea. Questa è l'invenzione del cinema! Film chiave quindi per comprendere cosa il cinema abbia sognato per il suo futuro è infatti un film che esce nell'anno del centenario del cinema e che racconta il capodanno del nuovo secolo in questa chiave: si chiama "Strange Days". Il cinema nel film della Bigelow è un dispositivo individuale, una calotta cranica da indossare per vivere totalmente l'esperienza virtuale di un'altra vita! Questa è "la verità a 24 fotogrammi al secondo" di cui ci parla Godard, non altro. Per queste due ragioni (finalità del dispositivo e rapporto con lo spettatore) chi invoca la Sala come antidoto socializzante ha torto. Ha torto però anche Greenaway a pensare che il suo cinema sia la nuova stagione del cinema. E' invece altra cosa dal cinema, è la vittoria della rappresentazione sull'illusione. Un conflitto che attraversa tutta la storia dell'arte occidentale, l'unica credo che abbia cercato di costruire apparati illusori e prendere il pubblico per lo stomaco prima che per l'intelletto. Solo che i percorsi della storia non seguono linee logiche. Non la realtà virtuale è entrata in gioco a subentrare al cinema bensì il dvd, i'interattività, internet, i cellulari ecc ecc. Probabilmente ora dovranno passare molte centinaia d'anni prima che un'invenzione faccia rinascere il cinema e non accadrà più per una diretta filiazione. D'altro canto, è dal 2001 (senza Odissea appunto) che sappiamo che la realtà ha finito di anticipare i sogni dell'uomo, la corsa verso il futuro era finita! Il Cinema e la Letteratura erano (non "sono" perché oggi non ci provano nemmeno più e parlano solo al presente o al passato) tornati a correre più veloci di essa ma negli ultimi tempi spesso sbagliare rotta. Niente viaggi oltre Giove e il tempo! Le nuove generazioni non l'hanno nemmeno sognato il futuro. E dopo Kubrick anche quei cinque anni d'anticipo sull'anno 2000 di "Strange Days" hanno confermato che il nuovo secolo non ci donerà grandi novità. Il futuro è quello che ci ha mostrato Greenaway e non la Bigelow. Non inizia con gli esperimenti di rapporti sessuali tra uomini calati in tute e caschi da realtà virtuale (ricordiamoci che la pornografia è sempre l'avanguadia del rapporto tra uomo e macchinari del gioco) bensì nel telecomando di un televisore che gestisce multicanali e reti contemporaneamente. Per Greenaway il futuro digitale del cinema è iniziato infatti con il telecomando. Ha ragione ma questa è la sconfitta del cinema. E' anche vero che chi ha lavorato sul crinale della crisi del cinema, ossia i grandi autori del passato prossimo, Rossellini, Godard e Fassbinder, abbiano non a caso visto nella televisione il mezzo più idoneo per continuare. Tutti costoro avevano però rinunciato all'illusione e scelto il rapporto critico con lo spettatore, l'impresa enciclopedica e la saggistica piuttosto che la narrazione e il trasporto. Però tutti e tre lo fanno perché trovano esaurita la capacità dell'illusione di trasmettere verità ed esperienza dell'altro. Occorre che lo spettatore si fermi a guardare e per farlo occorre svegliarlo dal torpore che l'illusione come macchina dello spettacolo produce in lui. Come ci insegna Herzog, occorre guardare quello che il disposivo cinematografico coglie quando è dismesso e fuori controllo, quando resta acceso e si mette a registrare senza controllo la realtà, appunto come una finestra sul mondo. Greenaway, al contrario, ha completamente abbandonato tale intenzione. Da artista figurativo quale egli è, usa il cinema come codice e costruisce artefatti che non sono nemmeno più dei film. La grandezza dell'opera di Greenaway l'ho capita solo ieri nel momento che non si è proposta come opera filmica ma come opera multimedia. Lo ha detto lui stesso che Tulse Luper a cinema non ha funzionato perché non è più lo strumento idoneo. Altre forme come il set di vjing lo sono. Il limite dell'opera di Greenaway è proprio il ruolo che egli lascia svolgere, in queste opere, alla narrazione. Egli tende ad escluderla e renderla una cronaca, un esercizio di cronaca o di storia, dove "esistono gli storici e non la storia". Eppure i grandi esempi di opere enciclopediche del passato da lui citate, come Dante, Shakespeare e Le Mille e una Notte, contengono invece storie che non si fermano alla collezione. Quello che abbiamo visto ieri a Bari non era invece una Enciclopedia ma il suo Indice Analitico. Non sono la stessa cosa. Da spettatore del futuro di questa televisione, interattiva multicanale e multidisposivo, voglio cliccare io su un link-immagine per farmi raccontare la storia che essa custodisce. In questo non so se Peter Greenaway si sia accorto di un limite paradossale del suo discorso. Egli sapientemente ci ha spiegato come il cinema non sia mai stato realmente narrativo anche quando ha pensato di esserlo: chi si ricorda la trama di "Citizen Kane", di "Casablanca" ecc ecc.? Nessuno, si e no una frase per spiegare la trama e poi non ci resta altro da raccontare. Perché allora indicare il suo percorso come antinarrativo? Al contrario se la sua impresa avrà successo e se lui ambisce ad essere il Dante del ventunesimo secolo, egli dovrà finalmente riempire il suo (non)cinema di narrazioni. Ma come lui stesso ha detto: quello che ci rimane di "Casablanca" non è la sua narrazione ma una sorta di atmosfera, di ambiente virtuale aggiungo io. Ed è quello che il suo (non)cinema del futuro non ambisce a fare. Questo il limite sui cui la sua impresa frana! Dentro la pagina di Dante ci si perde, dentro la scena di Shakespeare ci si perde, di fronte ad un quadro di Velazquez invece ci si incanta. Ci si può chiedere quale storia nasconda una lettera poggiata sul tavolino ma non è la stessa cosa che poterla realmente leggere, ascoltare o vedere. I grandi affreschi delle Chiese sono invece opere nate con l'intento di impaurire il fedele o di suscitare in lui un sentimento di trasporto. Esse però per compiersi avevano bisogno di grandi oratori, di sermoni e prediche che facessero vivere i personaggi negli affreschi, che facessero loro prendere forma e che facessero impaurire il pubblico dei fedeli, raccontando loro le storie della Bibbia. Nell'opera di Greenaway manca proprio il pulpito. Ma non è il telecomando ad averlo distrutto, l'arte consiste infatti nel farci fermare ad ogni cambio di canale, con la responsabilità di decidere su quale. Potrebbe così ancora accadere di incontrare l'immagine in una donna in attesa del raggio verde. Perchè il cinema non è morto ma è sconfitto, la morte non esiste, tutto rinasce se è un sogno, e il sogno del cinena vive nell'attesa di una nuova tecnologia e di un nuovo tempo. Questo tempo non è infatti il suo perché il Raggio Verde non è sulla Strada Verde del (non)cinema del futuro presente di Greenaway. Resta quello indicato da Rhomer.

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